FONDAMENTI FILOSOFICI

Estetica Contemporanea e Teoria dell'Immagine

Ogni pratica artistica autentica poggia su un terreno teorico che opera silenziosamente anche quando non viene esplicitato. Questa ricerca non fa eccezione e anzi, proprio per la sua natura ibrida tra prassi visiva e riflessione concettuale, esige una chiarificazione dei propri fondamenti. Non si tratta di cercare una legittimazione teorica a posteriori, ma di riconoscere le coordinate concettuali che hanno reso possibile questa particolare configurazione dell'immagine. I riferimenti teorici provengono da tradizioni diverse ma convergenti: l'estetica continentale francese (Rancière, Bourriaud, Derrida), la filosofia analitica dell'arte (Danto), la teoria dei sistemi (Luhmann), la logica matematica (Gödel, Hofstadter). Solo un apparato plurale può rendere conto della complessità delle configurazioni qui proposte.

L'IMMAGINE PENSOSA (RANCIÈRE)

Jacques Rancière ha elaborato una delle teorie più potenti e sovversive dell'immagine contemporanea. Il suo contributo si situa all'incrocio tra filosofia politica ed estetica, mostrando che la questione di cosa sia un'immagine non può mai essere separata dalla questione di chi ha il potere di produrla, distribuirla e interpretarla. Al centro della sua riflessione sta il concetto di immagine pensosa (image pensive), una nozione che resiste deliberatamente a definizioni troppo nette. Un'immagine pensosa non è semplicemente un'immagine che rappresenta un pensiero preesistente, né un'immagine che invita lo spettatore a pensare. È piuttosto un'immagine che pensa da sé, che contiene al proprio interno una forma di pensiero che eccede tanto l'intenzione dell'artista quanto la capacità interpretativa dello spettatore. Questa formulazione apparentemente enigmatica rivela la sua profondità quando la si mette in relazione con due modalità riduttive di intendere l'immagine. Da un lato, c'è la concezione dell'immagine come pura presenza sensibile, oggetto offerto alla contemplazione estetica. Dall'altro, l'idea dell'immagine come segno da decifrare, geroglifico visivo il cui significato attenderebbe di essere tradotto. L'immagine pensosa si sottrae a entrambe: non è né pura superficie da contemplare né messaggio cifrato da decodificare. È qualcosa di più inquietante: un oggetto che ci guarda mentre noi lo guardiamo, che pensa mentre noi pensiamo di interpretarlo.

Altro concetto chiave è quello di zona di indecidibilità. Rancière identifica diverse forme di indecidibilità che caratterizzano l'immagine artistica contemporanea. La prima è l'indecidibilità tra arte e non-arte. Nel regime estetico dell'arte, questo confine diventa costitutivamente instabile: un oggetto ordinario può diventare opera d'arte non per sue qualità intrinseche ma per il modo in cui viene percepito, contestualizzato, messo in relazione. Non è mancanza o difetto, ma condizione positiva di produzione del senso estetico. Nel caso delle visio(so)phie, questa indecidibilità opera intensamente: le fotografie oscillano tra documento e costruzione, tra traccia indicale e artificio. Gli elementi geometrici potrebbero essere diagrammi tecnici o pure forme plastiche. I frammenti testuali potrebbero essere didascalie o componenti poetiche. L'opera mantiene aperte tutte queste possibilità simultaneamente, costringendoci a quell'oscillazione che Rancière definisce contemplazione attiva: uno stato in cui lo spettatore è assorbito dall'immagine e messo in movimento da essa, senza gerarchia tra questi due momenti.

Infine il concetto di partizione del sensibile (partage du sensible) costituisce forse il contributo più politicamente pregnante di Rancière. Con questa espressione, egli designa il sistema implicito di evidenze che determina cosa è visibile e cosa è invisibile, cosa è dicibile e cosa rimane muto, chi ha diritto di prendere la parola e chi ne è escluso. Ogni regime estetico opera una particolare partizione del sensibile. Il regime rappresentativo delle arti organizzava lo spazio attraverso gerarchie chiare: gerarchia dei generi, delle arti, dei soggetti. Questa partizione rifletteva la partizione sociale: a ciascuno il proprio posto. Il regime estetico opera una radicale riconfigurazione: "identifica l'arte al singolare e slega questa arte da ogni regola specifica, da ogni gerarchia". Nelle visio(so)phie e nelle foto[so]phie, questa riconfigurazione è esplicita: elementi di provenienza eterogenea coesistono su un piano di equivalenza. Non c'è un elemento che domini, non c'è un centro che organizzi la periferia. Ogni componente mantiene la propria specificità pur entrando in relazioni produttive con tutti gli altri. È una piccola rivoluzione democratica nello spazio dell'immagine.

Applicare la teoria di Rancière non significa aderirvi acriticamente. Ci sono almeno tre punti in cui questa ricerca mette alla prova il framework rancieriano. Il primo riguarda la manipolabilità fisica. Rancière sviluppa la sua teoria in relazione a opere con forma finale stabile. Ma le visio(so)phie manipolabili introducono una trasformabilità che complica il concetto stesso di opera. L'immagine pensosa diventa immagine pensante-in-divenire, processo dinamico alimentato dalle manipolazioni successive. Il secondo punto riguarda il rapporto tra concettualità e materialità. Rancière tende a privilegiare l'immagine come entità immateriale, definita dalle relazioni più che dalla consistenza fisica. Ma qui la materialità gioca un ruolo costitutivo: il tipo di carta, la qualità della stampa, la texture degli interventi non sono accidentali ma essenziali. Potremmo dire: materialismo dell'indecidibilità. Il terzo aspetto critico riguarda documentazione e riproducibilità. Le foto[so]phie esistono come file digitali, stampe multiple, versioni manipolate, documentazioni fotografiche. Questa moltiplicazione ontologica genera indecidibilità che Rancière non aveva previsto: quale versione è l'opera? Dove risiede l'identità quando questa esiste in multiple incarnazioni? Bella domanda, che ci porta dritti verso il prossimo filosofo della nostra rassegna. L'idea rancieriana di partizione del sensibile ci ha mostrato come ogni configurazione estetica sia simultaneamente una configurazione politica. Ma cosa succede quando la storia stessa dell'arte raggiunge una soglia critica? Quando non esiste più una narrazione dominante che guida il progresso artistico? È qui che entra in scena Arthur Danto con la sua provocatoria teoria della fine dell'arte. Non fine cronologica, attenzione, ma fine della grande narrazione che aveva guidato sei secoli di arte occidentale. E guarda caso, Danto sviluppa questa teoria proprio osservando una scatola di detersivo Brillo di Warhol, un assemblaggio che avrebbe potuto benissimo stare in una visio(so)phia. Vediamo come.

POST-STORIA DELL'ARTE (DANTO)

Nel 1964, Arthur Danto si trova davanti alle Brillo Box di Andy Warhol e subisce quella che lui stesso definì una conversione filosofica. Il problema non è più cos'è il bello ma più radicalmente cos'è l'arte. Da questo incontro nasce la teoria della fine dell'arte: non fine cronologica (l'arte continua allegramente a prodursi) ma fine della grande narrazione progressiva che l'aveva guidata per sei secoli dal progresso mimetico rinascimentale all'astrazione modernista. Quando l'arte può essere qualsiasi cosa, significa che ha raggiunto una libertà assoluta dai vincoli. Paradossalmente, questa libertà totale coincide con la sua morte come narrazione teleologica. E qui le cose si fanno interessanti per noi. Danto introduce una distinzione fondamentale: ciò che trasforma un oggetto ordinario in opera d'arte non è una proprietà percettiva ma l'aboutness: l'opera d'arte è sempre about qualcosa, ha un contenuto semantico, un'interpretazione, incarna una teoria. Ma c'è di più: l'opera ha stile, inteso come modalità particolare di incarnare il proprio contenuto. Lo stile è il come l'opera esprime il suo about, ciò che rende una metafora visiva efficace piuttosto che mera illustrazione. Le visio(so)phie operano esattamente in questa zona: non sono semplici assemblaggi di elementi ma configurazioni che incarnano teorie (sulla rappresentazione, sull'identità, sulla temporalità) attraverso modalità specifiche di giustapposizione e tensione. La condizione post-storica dell'arte (quella che viviamo dal 1960 circa) è caratterizzata dal pluralismo assoluto. Non esiste più uno stile dominante, una direzione privilegiata. Qualsiasi stile del passato può essere recuperato, qualsiasi materiale utilizzato, qualsiasi approccio è legittimo. È la condizione che Danto definisce tutto è possibile. Questo pluralismo non è anarchia ma libertà: l'arte può finalmente realizzare la sua essenza filosofica, diventare modo di pensare il mondo attraverso mezzi sensuali. Gli assemblaggi incarnano perfettamente questa condizione: non seguono una logica progressiva, possono incorporare riferimenti da epoche diverse, trattano qualsiasi frammento culturale come legittimo materiale compositivo.

Per Danto, l'opera d'arte post-duchampiana è un quasi-oggetto perché condivide tutte le proprietà fisiche dell'oggetto ordinario pur possedendo uno statuto ontologico radicalmente diverso. Ma c'è un altro filosofo che ha elaborato una teoria dei quasi-oggetti ancora più radicale: Michel Serres. Per Serres, i quasi-objets sono entità relazionali che esistono solo nel movimento, nella circolazione, nel passaggio tra attori. Il paradigma è il pallone nel gioco: esiste veramente solo quando viene passato, quando trasforma gli attori che lo maneggiano trasformandosi a sua volta. Le Brillo Box non sono arte in senso essenziale, ma diventano arte attraverso una rete di relazioni: contesto espositivo, sistema critico, teoria estetica. Similmente, i quasi-oggetti di Serres esistono solo come mediatori. In un assemblaggio, ogni frammento è simultaneamente oggetto materiale e quasi-oggetto culturale. Quando viene manipolato, si attiva una rete di relazioni che trasforma tanto il frammento quanto l'osservatore. Mentre l'arte digitale tende a produrre oggetti puri (file, dati, algoritmi), un assemblaggio fisico genera quasi-oggetti nel senso più pieno: entità materialmente impure che esistono solo attraverso relazioni fisiche e simboliche. Ogni gesto introduce elementi di contingenza, errore, resistenza materiale che mantengono l'opera in una condizione di instabilità produttiva. Non si risolve mai completamente in immagine o concetto, ma resta sospesa. È questa sospensione che ci porta al terzo movimento della nostra rassegna teorica: Nicolas Bourriaud e la sua idea di arte come post-produzione.

POST-PRODUZIONE E CAPITALISMO COGNITIVO (BOURRIAUD)

Nicolas Bourriaud osserva come molti artisti contemporanei non creino più oggetti ex nihilo ma operino attraverso riorganizzazione, mixaggio, ricontestualizzazione di materiali già esistenti. Il termine post-produzione, mutuato dal cinema, suggerisce un'estetica che interviene su contenuti già prodotti. L'artista post-produttivo è come un DJ: non produce suoni ma li ricombina creativamente. Ma attenzione: mentre il DJ opera su materiali immateriali (file audio), l'artista che lavora con assemblaggi fisici introduce una dimensione di resistenza materiale. Ogni taglio, ogni incollatura è un gesto di resistenza ontologica alla smaterializzazione del lavoro. È archeologia del presente che scava nelle stratificazioni dell'immaginario per produrre cortocircuiti illuminanti. Il capitalismo digitale rappresenta una mutazione qualitativa: non si basa più sull'estrazione di plusvalore dalla forza lavoro fisica ma sulla cattura di dati, attenzione, relazioni sociali, creatività diffusa. Per l'artista, questa trasformazione è doppiamente problematica. Ogni gesto artistico lascia tracce digitali monetizzabili, ogni condivisione online alimenta algoritmi proprietari. Il ritorno a pratiche materiali come l'assemblaggio può configurarsi come forma di sottrazione ai circuiti di valorizzazione digitale. Ogni gesto fisico irreversibile come tagliare, incollare, dipingere, introduce un elemento di inefficienza che resiste alla logica algoritmica. Tuttavia il capitalismo ha dimostrato capacità straordinaria di metabolizzare le proprie critiche. La sfida è duplice: sviluppare una critica teorica lucida e, simultaneamente, inventare pratiche creative che prefigurino forme alternative di organizzazione. Non si tratta di scegliere tra interno ed esterno del sistema, ma di operare nelle sue crepe per aprire spazi di possibilità. E questo ci porta all'ultimo movimento di questa rassegna: la decolonizzazione del visivo.

DECOLONIZZAZIONE DEL VISIVO

Decolonizzare il visivo significa liberare l'immagine dalla sua subordinazione al discorso verbale. Per troppo tempo l'immagine è stata trattata come illustrazione di concetti che la precedono e la dominano. Ma l'immagine può pensare autonomamente, generare forme di conoscenza irriducibili al linguaggio proposizionale. Le foto[so]phie, con il loro tetragramma che integra testo e immagine senza subordinare l'uno all'altra, praticano questa decolonizzazione. Il testo non spiega l'immagine, ma la complica. L'immagine non illustra il testo, ma lo interroga. Si genera una zona di tensione produttiva dove nessun elemento domina. Rancière ha mostrato come l'emancipazione intellettuale passi attraverso il riconoscimento dell'uguaglianza delle intelligenze. Lo spettatore non riceve passivamente significati predeterminati ma partecipa attivamente alla loro costruzione. Le versioni manipolabili delle visio(so)phie incarnano letteralmente questa pedagogia radicale: l'opera non si offre solo alla contemplazione ma all'intervento trasformativo. Il fruitore diventa co-creatore, non per populismo demagogico ma per riconoscimento che l'opera raggiunge completezza solo attraverso l'incontro con intelligenze diverse. È una forma di democrazia esigente che richiede impegno e responsabilità. La strategia della geminazione (versione sigillata e versione manipolabile) propone un modello alternativo di circolazione artistica. La versione sigillata mantiene la funzione testimoniale dell'intenzione originaria. Le versioni manipolabili circolano come beni comuni, disponibili alla trasformazione collettiva. Non è rinuncia alla paternità ma sua ridefinizione: da controllo proprietario a responsabilità generativa. L'artista non possiede ma innesca processi creativi autonomi. È un'etica della condivisione che non sacrifica il rigore ma lo ridefinisce come capacità di generare pratiche feconde piuttosto che prodotti finiti.

Questi quattro movimenti teorici –Rancière (indecidibilità), Danto (post-storia), Bourriaud (post-produzione), decolonizzazione del visivo– non formano un sistema chiuso ma una costellazione aperta. Ogni concetto illumina aspetti specifici delle opere, ma nessuno le esaurisce. È precisamente in questa irriducibilità che risiede la fecondità della ricerca: le opere non sono applicazioni di teorie ma campi di sperimentazione dove le teorie vengono messe alla prova, confermate o smentite, estese o modificate. La teoria non legittima la pratica né la pratica illustra la teoria. Piuttosto, si genera un feedback produttivo dove ciascuna informa e trasforma l'altra. È questo dialogo serrato tra mano e mente, tra intuizione e concetto, tra gesto e riflessione, che mantiene viva la promessa dell'arte: non risolvere la complessità del reale ma abitarla produttivamente, generando configurazioni che ci permettono di vedere, pensare e sentire diversamente.

Immagine filosofica