ESTENSIONI TRANSDISCIPLINARI

Risonanze con Altri Sistemi di Pensiero

L'arte contemporanea non vive in isolamento ma dialoga, consapevolmente o meno, con altri sistemi di pensiero: matematica, teoria dei giochi, scienze cognitive, economia politica. Queste riflessioni esplorano alcune di tali risonanze, mostrando come principi sviluppati in ambiti apparentemente distanti dall'estetica illuminino aspetti cruciali della ricerca qui documentata. Non si tratta di applicare meccanicamente concetti esterni all'arte, ma di riconoscere strutture comuni, logiche condivise, problemi analoghi che attraversano domini disciplinari diversi. L'incompletezza gödeliana, la bellezza emergente negli scacchi, l'autopoiesi dei sistemi viventi, la cattura dell'attenzione nel capitalismo digitale: ognuno di questi concetti getta luce su come le immagini pensano, si riproducono, resistono e si trasformano.

SISTEMI FORMALI E INCOMPLETEZZA

Nel 1931, un matematico austriaco di ventiquattro anni dimostrò qualcosa di straordinario: ogni sistema formale sufficientemente complesso contiene proposizioni che sono vere ma non dimostrabili all'interno del sistema stesso. Il Teorema di Incompletezza di Gödel è tecnicamente complicato, ma l'intuizione centrale è quasi poetica: più un sistema è ricco e potente, più contiene verità che eccedono la sua capacità di dimostrazione. È come se il sistema fosse condannato a un'incompletezza costitutiva proprio in virtù della sua complessità. Non è un difetto ma una proprietà strutturale: l'incompletezza è il prezzo della potenza espressiva. Cosa c'entra questo con l'arte? Moltissimo. L'arte contemporanea, specialmente quella concettuale e autoreferenziale, opera in una zona analoga. Un'opera che riflette sulla propria natura (come le meta{so}phie) si trova in una situazione gödeliana: non può mai dire completamente cosa è, non può fondare totalmente se stessa. Ogni tentativo di auto-definizione genera un residuo, un'eccedenza, un punto cieco. Le meta{so}phie fotografano i materiali della fotografia, documentano il processo fotografico, ma questa documentazione è essa stessa fotografia e quindi richiede ulteriore documentazione, in un regresso potenzialmente infinito. È lo strange loop di cui parla Douglas Hofstadter: una struttura gerarchica che si ripiega su se stessa creando un cortocircuito tra livelli che dovrebbero rimanere separati. Ma ecco il punto cruciale, quello che Gödel stesso forse non aveva previsto: l'incompletezza non è solo un limite logico ma una risorsa generativa. Proprio perché l'arte non può definire completamente se stessa, può continuare a prodursi, a interrogarsi, a trasformarsi. Se ci fosse una definizione finale e completa di cosa è l'arte, l'arte potrebbe chiudere bottega e andare in pensione. Invece, ogni opera aggiunge qualcosa al sistema senza mai esaurirlo. Ogni visio(so)phia è un tentativo di dire cosa può essere un'immagine, ma questo tentativo lascia sempre un resto, apre nuove possibilità, suggerisce configurazioni inedite. Le meta{so}phie incarnano letteralmente questo paradosso. Sono opere che documentano la propria genesi, che contengono la propria teoria, che si osservano mentre si costituiscono. Ma questa auto-osservazione non chiude il cerchio piuttosto lo complica. Ogni livello di riflessività genera la necessità di un ulteriore livello. È come quegli specchi contrapposti che generano infinite immagini riflesse: non c'è un'ultima immagine, un punto di arresto definitivo. E questa mancanza di arresto non è fallimento ma condizione di vitalità. L'arte continua perché è strutturalmente aperta, perché ogni risposta genera nuove domande, perché l'incompletezza è il suo motore segreto. Questa logica ricorsiva trova un'analogia sorprendente in un dominio apparentemente lontano: il gioco degli scacchi.

SCACCHI COME ANALOGIA

Gli scacchi costituiscono un caso paradigmatico di sistema formale chiuso che genera infinità. Le regole sono poche e precise: come si muove ogni pezzo, cosa significa scacco matto, quando una partita è pari. Eppure da queste regole finite emerge una complessità praticamente inesauribile. Il numero di partite possibili supera il numero di atomi nell'universo osservabile. Due giocatori di uguale forza potrebbero giocare per millenni senza mai ripetere la stessa partita. È esattamente il paradosso che affascina nell'arte grammaticale: regole definite che generano possibilità illimitate. I polittici di L.O.W. operano secondo questo principio: un insieme finito di relazioni formali (prossimità, parallelismo, ciclicità, riflessività) produce una varietà potenzialmente infinita di configurazioni. Ma c'è un aspetto ancora più interessante: la teoria delle aperture. I giocatori non inventano mosse dal nulla. Attingono da un repertorio codificato di configurazioni consolidate che vengono ricombinate e adattate al contesto specifico. È esattamente la logica della post-produzione di Bourriaud: originalità combinatoria piuttosto che creazione assoluta. Le aperture sono frammenti culturali riutilizzabili, elementi preesistenti che acquisiscono significati inediti attraverso nuove configurazioni. Ogni partita è un assemblaggio temporale di configurazioni spaziali, dove il valore di ogni mossa emerge dalla relazione con l'intera sequenza. E qui affiora qualcosa di sottile: la bellezza emergente. Non tutte le mosse vincenti sono belle. Ci sono partite che si vincono per pura forza bruta, per calcolo meccanico, per logoramento dell'avversario. Ma poi ci sono quelle combinazioni che i commentatori definiscono brillanti: sacrifici apparentemente assurdi che si rivelano devastanti, manovre che sembrano violare la logica ma che dimostrano una logica superiore. È la distinzione tra immagini funzionali e immagini pensanti: entrambe funzionano in un certo senso, ma solo le seconde generano quello stupore che chiamiamo esperienza estetica. Una visio(so)phia potrebbe funzionare anche con elementi disposti in modo prevedibile, ma è dalla configurazione imprevedibile, dalla giustapposizione audace, dal cortocircuito rischioso che nasce la sua potenza. E poi arrivò l'intelligenza artificiale. Programmi come Stockfish e AlphaZero hanno raggiunto un livello di gioco che nessun umano può eguagliare. Hanno dimostrato che il "gioco perfetto" è teoricamente raggiungibile (anche se praticamente impossibile da calcolare completamente). È la fine della storia degli scacchi nel senso di Danto: la narrazione progressiva perde la sua forza trainante. Ma paradossalmente, questo ha liberato i giocatori umani. Non devono più cercare il gioco oggettivamente migliore (quello lo trova la macchina). Possono concentrarsi su aspetti espressivi, psicologici, estetici. Possono giocare mosse imprecise che però generano posizioni ricche, complesse, interessanti. La fine della narrazione progressiva apre lo spazio del pluralismo stilistico: esattamente quello che Danto descriveva per l'arte post-storica. E questa liberazione dalle narrazioni ci porta a considerare come i sistemi artistici, scacchistici, biologici, si auto-producono e si auto-osservano.

SISTEMI AUTOPOIETICI

Negli anni '70, due biologi cileni, Maturana e Varela, introdussero il concetto di autopoiesi (dal greco: auto-produzione) per descrivere i sistemi viventi. Un sistema autopoietico è un sistema che produce continuamente se stesso attraverso le proprie operazioni. Una cellula non riceve istruzioni dall'esterno su come essere una cellula: è la rete stessa di processi chimici che la costituisce a produrre i componenti che mantengono quella stessa rete. È un circolo virtuoso. Il sociologo Niklas Luhmann ha esteso questa idea ai sistemi sociali, compreso il sistema dell'arte. Il sistema dell'arte si auto-riproduce: genera continuamente nuove opere, interpretazioni, teorie che ridefiniscono i confini e i criteri del sistema stesso. Ma, e qui le cose si fanno gödeliane, il sistema non può osservarsi completamente dall'interno. Ogni tentativo di meta-arte (arte che riflette sull'arte) è ancora arte, e quindi parte del sistema che pretende di osservare. Luhmann definisce questo il paradosso dell'auto-osservazione: l'osservatore non può osservare se stesso nell'atto di osservare. Ogni osservazione ha un punto cieco. Le meta{so}phie tentano qualcosa di strutturalmente impossibile: osservare il processo fotografico mentre lo si compie. Fotografare la fotografia. Ma questa operazione non risolve il paradosso ma lo performa. Lo rende visibile come paradosso. È come quei disegni di Escher dove la mano che disegna viene disegnata dalla mano che dovrebbe essere disegnata. Non è soluzione ma esibizione produttiva dell'impossibilità. La teoria dell'enaction (Varela, Thompson, Rosch) propone una visione radicale: la cognizione non è rappresentazione di un mondo pre-dato ma enactment, messa in atto. L'organismo e l'ambiente sono inseparabili, strutturalmente accoppiati. Il mondo che percepiamo è co-generato dalle nostre capacità sensomotorie. Trasferendo questa idea all'arte ne consegue che l'opera non rappresenta significato ma lo agisce, lo porta all'esistenza attraverso l'esperienza dello spettatore. Le versioni manipolabili delle visio(so)phie sono letteralmente enactive: il significato emerge dall'azione fisica di riorganizzare gli elementi. È pensiero aptico, cognizione che passa attraverso le mani. Non pensiamo prima e poi agiamo: pensiamo attraverso l'azione. Manipolare un assemblaggio è fare esperienza diretta di come il significato emerge dalla relazione, di come piccole modifiche generano grandi trasformazioni semantiche. Ma questo pensiero incarnato, questa materialità irriducibile, incontra oggi una forza che tenta sistematicamente di smaterializzarlo: il capitalismo digitale.

ECONOMIA DELL'ATTENZIONE E CAPITALISMO DIGITALE

Il capitalismo digitale opera una mutazione qualitativa rispetto al capitalismo industriale. Non estrae più plusvalore principalmente dalla forza lavoro fisica ma cattura dati, attenzione, relazioni sociali, creatività diffusa. Per l'artista contemporaneo, questa trasformazione è doppiamente insidiosa. Ogni gesto creativo lascia tracce digitali monetizzabili. Ogni condivisione online alimenta algoritmi proprietari. Ogni like, view, share genera valore che viene estratto e accumulato da piattaforme che non compensano adeguatamente chi produce contenuti. Il lavoro culturale viene precarizzato: si lavora sempre, si viene pagati raramente, si compete costantemente per visibilità che è diventata la nuova valuta. L'opacità algoritmica completa il quadro: non sappiamo come funzionano esattamente gli algoritmi che decidono cosa è visibile e cosa sparisce nel rumore di fondo. Il ritorno a pratiche materiali può configurarsi come forma di resistenza attraverso l'inefficienza. Ogni gesto fisico irreversibile introduce elementi di contingenza che resistono alla logica dell'ottimizzazione algoritmica. Un file digitale può essere duplicato infinitamente a costo zero. Un assemblaggio fisico richiede tempo, materiali, presenza corporea. Non è riproducibile perfettamente. Ha un'aura che deriva dalla sua unicità materiale. Questa inefficienza produttiva è precisamente ciò che lo sottrae (parzialmente) ai circuiti di valorizzazione digitale. I protocolli aperti –documentare pubblicamente i processi, condividere metodologie, rendere manipolabili le versioni– costituiscono un'altra strategia: opporre alla proprietà algoritmica opaca forme di condivisione trasparente. L'arte diventa pedagogia della trasparenza: mostrare come si fa, invitare alla replica, rendere visibili i meccanismi. Ma attenzione: il capitalismo ha dimostrato capacità straordinaria di metabolizzare le proprie critiche. La creatività stessa è diventata commodity. L'artista indipendente è un brand appetibile. La critica radicale si trasforma in contenuto virale. Il gesto di resistenza viene fotografato, condiviso, trasformato in capitale culturale. C'è un rischio di marginalizzazione: ritirarsi completamente dai circuiti digitali significa rinunciare a ogni forma di visibilità. Ma restare dentro significa restarne catturati. Non c'è soluzione semplice. La strategia può essere solo quella di operare nelle crepe del sistema: usare le piattaforme contro se stesse, hackerare i circuiti, creare zone temporanee di autonomia, costruire reti alternative di distribuzione, mantenere viva la tensione tra necessità di visibilità e rifiuto della cattura totale.

Questi attraversamenti transdisciplinari non sono digressioni ma strumenti di orientamento. Mostrano come problemi che emergono nella pratica artistica risuonino con questioni affrontate in altri domini. L'incompletezza gödeliana illumina perché l'arte non può mai dire completamente cosa è. Gli scacchi mostrano come regole finite generino infinità espressive. I sistemi autopoietici rivelano che osservare è sempre osservare da una posizione cieca. Il capitalismo digitale ci ricorda che nessuna pratica artistica è esterna ai rapporti di potere economici. Ma questi attraversamenti fanno anche qualcosa di più importante: aprono possibilità di alleanze inattese. Un matematico che lavora su logiche non-classiche, un programmatore che sviluppa software open-source, un teorico dei sistemi complessi, un economista critico del capitalismo digitale: tutti potrebbero trovare nelle pratiche artistiche qui documentate risonanze con i propri problemi, strumenti concettuali trasferibili, intuizioni fertili. L'arte non è disciplina separata ma nodo in una rete più vasta di pratiche di pensiero che attraversano i confini disciplinari tradizionali. E forse è proprio in questa capacità di connettere, di generare risonanze trasversali, di fare da ponte tra domini apparentemente inconciliabili, che risiede una delle funzioni più preziose dell'arte contemporanea: non risolvere problemi ma renderli visibili in forme nuove, non fornire risposte ma aiutarci a formulare domande migliori.

Estensioni transdisciplinari