DIMENSIONI IMPLICITE
Inconscio, Memoria, Temporalità
Esiste un territorio dell'arte che sfugge ostinatamente alla mappatura razionale, una regione crepuscolare dove il metodo incontra i suoi limiti e dove ciò che non può essere pianificato diventa paradossalmente la fonte più autentica di senso. Dopo aver attraversato le architetture concettuali, le strutture formali, i protocolli combinatori, è tempo di sostare in quelle dimensioni che operano sotto la superficie del controllo autoriale: l'inconscio che si infiltra tra le maglie del metodo, la memoria che stratifica tempi eterogenei, le comunità interpretative che completano l'opera attraverso il proprio sguardo trasformativo. Non si tratta di un ripiegamento irrazionalista dopo tanta enfasi sulla costruzione metodica, ma del riconoscimento che ogni sistema sufficientemente complesso genera eccedenze che non può contenere, che ogni griglia lascia filtrare ciò che pretendeva di ordinare, che ogni protocollo nasconde nel proprio funzionamento dimensioni implicite senza le quali rimarrebbe sterile formalismo.
LO SPAZIO DELL'INCONSCIO
L'arte concettuale, nella sua aspirazione a una lucidità metodologica assoluta, ha spesso rimosso la propria dipendenza da forze pre-razionali. Come se fosse possibile costruire assemblaggi, stratificare immagini, elaborare grammatiche visuali affidandosi esclusivamente alla ragione progettuale. Ma ogni artista sa, anche quando non lo ammette, che le decisioni più cruciali avvengono in una zona di penombra dove l'intenzione cosciente si fonde con impulsi che sfuggono al controllo volontario. Perché proprio quella immagine accanto a quell'altra? Perché questa tonalità di rosso e non un'altra? Perché la mano traccia una linea lì invece che altrove? La risposta razionale arriva sempre dopo, come giustificazione post hoc di scelte che nel momento della loro esecuzione erano guidate da una logica differente, più antica, più corporea. Carl Gustav Jung ci ha insegnato che certe forme si ripresentano spontaneamente attraverso culture e epoche diverse: i mandala, le quaternità, le figure archetipiche che emergono tanto nei sogni quanto nelle produzioni artistiche. Quando nelle visio(so)phie ricorrono strutture circolari, divisioni binarie, figure che si sdoppiano e si riflettono, non stiamo semplicemente applicando schemi compositivi appresi, ma attingendo a un repertorio di forme che precedono la nostra biografia individuale. Gli archetipi non sono contenuti fissi ma possibilità formali, schemi vuoti che chiedono di essere riempiti dall'esperienza personale pur mantenendo la loro struttura riconoscibile. Il cerchio rosso che appare in molte opere non è mai lo stesso cerchio eppure è sempre il cerchio: totalità, completezza, contenimento. La figura duale non è semplice ripetizione ma manifestazione dell'archetipo, della coppia degli opposti che si complementano senza mai risolversi in unità pacificata. Sigmund Freud ha costruito un'intera scienza intorno a una scoperta fondamentale: ciò che sfugge al controllo cosciente non è accidente ma rivelazione. I lapsus non sono errori ma verità che si aprono un varco attraverso le censure dell'io; i sintomi non sono disfunzioni ma messaggi cifrati del rimosso; la condensazione onirica non è confusione ma logica alternativa che obbedisce a principi diversi dalla razionalità diurna. Applicato all'arte, questo significa che ogni opera contiene più di quanto l'artista intendesse consciamente comunicare. Quella macchia di colore che sembra fuori posto, quel dettaglio che disturba l'armonia complessiva, quell'elemento che l'artista stesso fatica a giustificare razionalmente, sono spesso i punti di massima intensità semantica, i luoghi dove l'inconscio ha lasciato la propria firma. Nelle foto[so]phie, gli interventi manuali finali non sono decorazioni ma sintomi necessari. Interrompono la perfezione digitale, introducono il corpo con le sue imperfezioni, rivendicano la presenza di una mano che non può essere completamente controllata dalla volontà. È il ritorno del corporeo nel regno dell'idea, l'irruzione del vissuto nel dominio del concetto. E proprio questa imperfezione, questo scarto rispetto al progetto iniziale, carica l'opera di un'umanità che nessuna perfezione tecnica potrebbe restituire. Gli errori generano significato non perché siano casuali, ma perché rivelano la necessità di ciò che la coscienza voleva escludere. Sono l'inconscio dell'opera che si fa strada attraverso le maglie del metodo. Ma allora il metodo è inutile? L'elaborazione di protocolli, grammatiche, sistemi combinatori sarebbe solo un'illusione di controllo? Esattamente il contrario. Il metodo non serve a eliminare l'inconscio ma a fornirgli uno spazio strutturato entro cui manifestarsi. Un assemblaggio senza regole compositive produrrebbe solo caos visivo; ma regole troppo rigide soffocherebbero ogni possibilità di sorpresa. È come la forma del sonetto in poesia: vincoli rigorosi che, lungi dal limitare l'espressione, la intensificano costringendola a trovare vie inaspettate.
TEMPORALITÀ MULTIPLE
Un'opera d'arte non abita un unico tempo ma almeno tre temporalità distinte che raramente coincidono. C'è il tempo della produzione: le ore, i giorni, talvolta gli anni durante i quali l'artista elabora, sperimenta, assembla gli elementi. È un tempo fatto di prove ed errori, di intuizioni improvvise e lunghe stagnazioni, di momenti di flusso e momenti di blocco. Questo tempo rimane spesso invisibile nel prodotto finito, cancellato dalla presentazione dell'opera come oggetto compiuto. Poi c'è il tempo della ricezione: i minuti o le ore che lo spettatore dedica all'opera, il suo percorso di sguardo attraverso la superficie, il lento o fulmineo emergere del senso. Questo tempo è infinitamente variabile: la stessa opera può essere attraversata frettolosamente o contemplata per ore, può rivelarsi immediatamente o richiedere ritorni successivi. Infine c'è il tempo della documentazione: le fotografie dell'opera, i testi critici, le citazioni in altri lavori, la sua vita nell'archivio e nella memoria culturale. Un tempo che può estendersi ben oltre la vita fisica dell'opera e persino oltre quella dell'artista. Le visio(so)phie con la loro strategia di geminazione mettono in scena esplicitamente questa molteplicità temporale. La matrice sigillata conserva il tempo originario della creazione, cristallizzato in forma permanente. La versione manipolabile accumula invece storia, trasformandosi attraverso gli interventi successivi del pubblico, diventando palinsesto temporale dove ogni strato conserva traccia dei precedenti pur modificandoli irrimediabilmente. La documentazione di entrambe le versioni genera poi un terzo tempo, quello dell'archivio che registra tutte le metamorfosi senza possederle davvero. Ma c'è un senso ancora più profondo in cui l'opera d'arte è intrinsecamente anacronistica. Ogni assemblaggio, ogni foto[so]phia, contiene elementi provenienti da epoche diverse: una statua classica accanto a una figura contemporanea, un frammento di testo antico sovrapposto a geometrie moderniste, memorie personali stratificate su archetipi millenari. L'opera non rispetta alcuna cronologia lineare ma si muove per salti temporali, cortocircuiti che fanno coesistere passato remoto e presente immediato, memoria collettiva e vissuto individuale. È ciò che Gilles Deleuze chiamava il cristallo di tempo: configurazione dove passato e futuro, reale e virtuale, cessano di essere separati da una successione lineare per coesistere in un'unica immagine-durata. Jacques Derrida ha coniato il termine différance (con la a) per indicare una struttura temporale costitutiva del senso stesso. Il significato di un segno non è mai pienamente presente, mai immediatamente accessibile, ma sempre differito, rinviato ad altri segni in una catena potenzialmente infinita. Ogni parola rimanda ad altre parole, ogni immagine ad altre immagini, ogni opera ad altre opere. Non c'è mai un'origine assoluta da cui tutto deriverebbe, né una fine definitiva dove il senso si stabilizzerebbe per sempre. C'è solo questo movimento perpetuo di rinvio, questa traccia che è sempre traccia di qualcosa che non è mai stato pienamente presente. Applicato alle opere d'arte, questo significa che nessuna interpretazione può mai essere definitiva. Ogni lettura apre nuove possibilità interpretative, ogni analisi genera ulteriori domande, ogni tentativo di fissare il senso produce nuovi slittamenti.
Queste dimensioni implicite non sono aggiunte esterne alle opere ma loro condizioni interne di possibilità. Ogni assemblaggio, ogni foto[so]phia, ogni meta{so}phia, ogni polittico di L.O.W. porta in sé queste dimensioni anche quando non le tematizza esplicitamente. Riconoscerle, nominarle, provare a pensarle non significa esaurirle –rimarranno sempre parzialmente opache, costitutivamente irriducibili alla piena trasparenza– ma significa onorare la complessità dell'arte come forma di pensiero che procede non solo attraverso la chiarezza del concetto ma anche attraverso l'oscurità fertile dell'intuizione, non solo nella linearità del presente ma nella stratificazione vertiginosa dei tempi, non solo nella solitudine dello studio ma nel dialogo incessante con le comunità che l'arte stessa contribuisce a generare.