D'OMBRA PERMANENTE

e fragile memoria di un istante

La fotografia contemporanea, con la sua vasta gamma di pratiche espressive, si offre come fecondo linguaggio di base: una trama capace di trasfigurare narrazioni visive in forme inedite che trascendono audacemente i confini tradizionali del medium. Nonostante molti miei lavori si caratterizzino per una marcata ibridazione con la parola scritta, i segni geometrici puri, la matericità degli interventi manuali più istintivi, continuo ostinatamente a considerarli autentiche fotografie o, più precisamente, post-fotografie per una costellazione di ragioni teoricamente rilevanti. Anzitutto, la connessione storica e teorica con il medium fotografico, di cui cerco continuamente un richiamo critico e consapevole. Poi il rapporto costitutivo con la realtà –anche quando palesemente manipolato e decostruito– e soprattutto l'idea peirciana di traccia o indice: quel segno che mantiene una connessione fisica diretta, una relazione causale ineludibile con il proprio oggetto di riferimento. C'è poi la dimensione della memoria stratificata, la riproducibilità tecnica –seppure deliberatamente limitata dagli interventi manuali più spontanei– e la natura documentaria latente che permane anche nelle forme più astratte. Scegliere consapevolmente di partire da un'immagine fotografica, con la sua peculiare resa dei dettagli microscopici, delle texture superficiali, la sua aura di realtà catturata, piuttosto che da un disegno o da un'immagine puramente generata, costituisce una scelta gravida di peso semantico specifico. A tutto ciò si aggiunge inevitabilmente uno strato di lettura legato alla specificità del medium fotografico, al suo ruolo culturale e storico, anche quando viene sottoposto a radicali decostruzioni e ri-contestualizzazioni. La scelta del mezzo è essa stessa parte integrante del concetto: interrogarsi se un'opera sia fotografia, scultura, installazione o altro e comprendere perché l'artista operi deliberatamente in quella zona di confine, costituisce elemento essenziale dell'analisi concettuale.

L'ambiguità mediale delle foto[so]phie si configura come strategia concettuale deliberata per stimolare la riflessione del fruitore sulla natura dell'immagine, dell'arte e della percezione stessa. Di contro, proporsi come completamente estranei a questa pratica di scrittura con la luce attraverso etichette generiche come arte visuale o collage digitale, offrirebbe certamente maggiore libertà da definizioni potenzialmente limitanti e apertura verso un pubblico più vasto, ma sbiadirebbe quel dialogo critico con la storia e la specificità della fotografia, ignorando tanto le implicazioni dell'uso di materiale fotografico quanto la disconnessione dalle proprie radici formative. Il riconoscimento della centralità del linguaggio fotografico di partenza, la valorizzazione della manipolazione e della decostruzione come pratiche interne al suo campo allargato, lo sfruttamento consapevole del peso semantico della fotografia, costituiscono elementi essenziali di questa ricerca. Porsi tali domande risulta fondamentale, soprattutto quando un'opera si rifiuta ostinatamente di rientrare in una categoria predefinita. Questa resistenza alla classificazione univoca non rappresenta difetto o indecisione, ma autentica strategia semantica attiva, un modo sofisticato per generare significato attraverso la perturbazione delle aspettative. Mettendo in discussione le categorie consolidate del fruitore e costringendolo a interrogarsi –cosa sto osservando esattamente? Come dovrei interpretarlo?– dischiude uno spazio di riflessione più intensa e partecipata.

Le foto[so]phie prendono avvio dal presupposto barthesiano che la fotografia, considerata isolatamente, rimane un segno senza codice, qualcosa che si colloca in una dimensione linguistica costitutivamente limitata. Nella sua riflessione semiotica, Barthes identifica nella fotografia un fenomeno comunicativo di straordinaria singolarità: mentre tutti gli altri linguaggi –dalla parola scritta alla pittura, dalla musica al cinema– operano attraverso sistemi codificati di segni convenzionali, la fotografia sembra sottrarsi ostinatamente a questa logica. L'immagine fotografica non significa nel senso tradizionale del termine: piuttosto, attesta. Non comunica attraverso un sistema di simboli appresi culturalmente, ma attraverso una relazione di pura contiguità fisica con il proprio referente. Questo la rende, paradossalmente, il più immediato e il più problematico dei linguaggi. Immediato perché sembra offrirci un accesso diretto alla realtà –"ça a été", "questo è stato", come scrive Barthes ne La camera chiara– senza la mediazione di codici interpretativi complessi. Problematico perché questa apparente immediatezza la priva degli strumenti retorici e semantici di cui dispongono i linguaggi propriamente simbolici. La fotografia tradizionale si trova così intrappolata in quello che potremmo definire un deficit linguistico strutturale: può mostrare con straordinaria precisione, ma stenta ad argomentare; può documentare con fedeltà implacabile, ma fatica a riflettere su se stessa; può testimoniare l'esistenza di ciò che è stato, ma rimane costitutivamente muta riguardo al significato di tale esistenza. È precisamente questo limite che le foto[so]phie si propongono di superare attraverso un'operazione di stratificazione semantica articolata: affiancando alla matrice fotografica uno strato di elementi geometrici puri, uno strato di componenti materiche tattili e uno strato tipografico linguistico. La costruzione di un equilibrio sottile e precario tra queste quattro vie della composizione –quello che potremmo denominare tetragramma fotografico– dà origine ad una configurazione inedita definita post-fotografia caratterizzata da una componente linguistica più corposa, capace di rimediare alle limitazioni del medium tradizionale e di restituire un'aura che superi i limiti della proliferazione digitale delle immagini.

Nel panorama della filosofia estetica contemporanea, pochi concetti si rivelano illuminanti quanto quello dell'immagine pensosa, magistralmente teorizzato da Jacques Rancière. Una costellazione concettuale che, come un prisma teorico, rifrange e riconfigura la nostra comprensione del visuale, inaugurando territori inesplorati di riflessione critica. L'immagine pensosa –penseuse nella lingua originale di Rancière– non costituisce semplicemente un'immagine che illustra un pensiero preesistente, un veicolo trasparente di significati predeterminati. Si configura piuttosto come entità vibrante di vita propria, campo magnetico carico di una pensée non pensée, un pensiero non pensato che eccede tanto l'intenzione creatrice dell'artista quanto la capacità interpretativa dello spettatore. Questa pensosità si materializza come presenza traboccante, surplus che resiste all'assimilazione, sia essa contemplativa o ermeneutica. L'immagine si erge come sfinge contemporanea, non per nascondere enigmaticamente un segreto, ma per manifestare la tensione feconda tra ciò che mostra e ciò che si sottrae, tra ciò che parla e ciò che rimane avvolto nel silenzio eloquente della forma.

Al cuore dell'immagine pensosa palpita quella che Rancière definisce una zona di indecidibilità, non ambiguità sterile o vaghezza concettuale, ma campo di forze dove logos e pathos, ragione ed esperienza, si intrecciano in un abbraccio dialettico che non si risolve mai definitivamente. È un interregno dove le polarità tradizionali –attività e passività, forma e materia, senso ed evento, arte e vita– perdono la loro rigida demarcazione per divenire flussi interagenti di un medesimo processo dinamico. Tale indecidibilità non rappresenta difetto o mancanza, ma condizione positivamente produttiva che impedisce la cristallizzazione del senso in formule definitive. È spazio di confine, soglia che l'immagine abita rifiutando di essere segregata in un'unica identità o funzione. In questa terra di mezzo, l'immagine respira liberamente, sfuggendo alla duplice tirannia del regime rappresentativo dell'arte e del regime etico delle immagini, per instaurarsi sovranamente nel territorio specificamente estetico che Rancière ha cartografato con acume ineguagliabile. In questo spazio di confine la foto[so]phia trova la sua dimora teorica più autentica al di fuori delle categorie tradizionali ergendosi come autentica ribellione filosofica contro due riduzionismi che hanno storicamente dominato il pensiero sulle immagini. Da un lato, la concezione dell'immagine come puro oggetto di contemplazione estatica e presenza silente offerta allo sguardo come nuda superficie visiva. Dall'altro, la visione dell'immagine come testo cifrato, geroglifico visivo che attende pazientemente di essere tradotto nel linguaggio della ragione discorsiva. Nel primo caso, l'immagine viene feticizzata come portale immediato verso un'esperienza affettiva pura, dove il pathos eclissa completamente il logos. Ma l'immagine pensosa rifiuta questa passività: la sua pensosità non costituisce invito all'abbandono sensoriale, parimenti, sfugge all'assimilazione come mera immagine ostensiva, illustrazione servile di un discorso che la precede e la determina. In questa lettura riduttiva, il significato dell'immagine sarebbe interamente esaurito dalla sua decodifica, dalla sua traduzione in un testo preesistente, dove il logos soffoca il pathos, privando l'immagine della sua irriducibile singolarità esperienziale. La post-fotografia si colloca deliberatamente al di fuori di entrambe queste logiche, configurandosi come operazione attiva che riconfigura dinamicamente le relazioni tra elementi eterogenei, tra visibile e dicibile, tra materia fotografica e intervento concettuale. Ciò che definisce fondamentalmente l'immagine pensosa non è tanto quello che mostra, quanto quello che fa: la sua operatività intrinseca. Non è un contenitore passivo di significati, ma un atto performativo che riorganizza attivamente le relazioni tra elementi eterogenei, istituendo complessi di relazioni che non preesistono ma che l'immagine stessa inaugura nella sua apparizione. Questo processo si manifesta attraverso operazioni di montaggio, creazione di intervalli, giustapposizioni impreviste che alterano le coordinate consolidate di ciò che è percepibile e intelligibile. L'immagine pensosa si rivela così non come specchio fedele della realtà, ma come intervento trasformativo nel tessuto del sensibile, alterazione produttiva delle coordinate che delimitano il campo dell'esperienza possibile. Nelle foto[so]phie, questa operatività si manifesta attraverso l'interazione dinamica tra i quattro strati compositivi: fotografico, geometrico, materico, tipografico. Ogni elemento mantiene la propria specificità semantica ma entra simultaneamente in relazione produttiva con tutti gli altri, generando configurazioni di senso che nessun componente isolato avrebbe potuto produrre.

L'irriducibilità dell'immagine pensosa a un significato univoco –determinato dall'intenzione autoriale o da un apparato interpretativo esterno– costituisce testimonianza della sua intransigente autonomia semantica. Questa resistenza a soluzioni definitive contesta implicitamente l'autorità di qualsiasi esegeta privilegiato o paradigma ermeneutico dominante. Si delinea così una critica implicita ai modelli gerarchici di trasmissione del sapere, dove un esperto illuminato decifra verità nascoste per un pubblico passivamente ricettivo. Tale dinamica risuona profondamente con il tema rancieriano dell'emancipazione intellettuale: l'immagine pensosa evoca uno spettatore che non riceve passivamente significati predeterminati, ma partecipa attivamente alla loro costruzione, in un processo che democratizza radicalmente l'atto interpretativo. Le foto[so]phie incarnano precisamente questa logica emancipatrice: resistendo a interpretazioni univoche, inaugurano uno spazio dove possono fiorire molteplici letture da parte di fruitori diversi. Ogni configurazione diventa campo aperto di possibilità semantiche, dove il significato emerge dall'incontro produttivo tra l'operatività dell'opera e l'attività interpretativa del fruitore. Un aspetto fondamentale di queste post-fotografie risiede negli interventi fisici che concludono il processo compositivo: quella goccia di vernice leggermente a rilievo, la linea tracciata con pastello o pennarello che lascia una traccia materica sulla superficie, sottolineano esplicitamente la natura oggettuale dell'opera, spezzando la superficie potenzialmente uniforme dell'immagine digitale. L'intervento manuale costituisce sempre segno diretto, gestuale, personale, autentico atto di incarnazione che certifica la presenza fisica dell'autore sull'opera finita. Questi ritocchi agiscono come ponti e punti di sutura tra l'origine fotografica dell'immagine e la sua realtà finale come oggetto fisico. Rappresentano il segno tangibile della volontà di abitare simultaneamente entrambi i mondi, quello virtuale della manipolazione digitale e quello materiale dell'esperienza tattile. Una linea tracciata a mano può suggerire movimento, energia, carezza o ferita inferta alla superficie, aggiungendo un livello dinamico ed emotivo che trascende la pura dimensione visiva. L'irregolarità, l'apparente casualità di una macchia, introducono quell'elemento di imperfezione, di rumore umano, che contrasta dialetticamente con la potenziale perfezione della tecnologia, arricchendo l'opera di calore e vulnerabilità. È come aggiungere un contrappunto simbolico, una lacrima o un sigillo finale che intensifica il messaggio complessivo dell'opera. In questo spazio intermedio tra tradizioni consolidate e nuovi linguaggi visivi, tra virtualità digitale e fisicità materica, tra concetto e materia, si dischiude la dimensione espressiva più autentica di questa ricerca. Non si tratta di risolvere l'ambiguità mediale di queste opere, ma di abitarle consapevolmente, all'altezza della propria complessità teorica, come spazio di libertà e riflessione critica, senza sacrificare alcuna potenzialità espressiva.

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