TERZO MOVIMENTO: LE META{SO}PHIE E IL CIRCOLO DELL'AUTO-RIFLESSIONE
quando la fotografia fotografa se stessa
Il terzo movimento di questo florilegio concettuale si annuncia attraverso un'operazione di auto-riflessività vertiginosa che riprende e radicalizza le intuizioni iniziali, spingendole verso una soglia di paradosso teorico estremamente fecondo. Le meta{so}phie nascono dalla possibilità di scorgere nel processo stesso la matrice generativa degli assemblaggi e delle foto[so]phie: qui non si tratta più di ibridare elementi eterogenei o di stratificare componenti linguistiche, ma di ripartire dalla materia fotografica stessa, o più correttamente post-fotografica, per mettere in luce i suoi elementi costitutivi. È una forma di ricorsione che condivide con i movimenti precedenti l'ossessione per la natura costitutivamente ibrida dell'immagine contemporanea, ma ne inverte audacemente la direzione operativa. Non più costruzione di complessità inedite, ma archeologia di una complessità già data. Si tratta di fotografare i pigmenti nelle loro consistenze materiali più pure, le carte nelle loro texture più immediate, le superfici sensibili nei loro stati di latenza, tutti quegli ingredienti materiali che solitamente rimangono occultati nell'invisibilità del prodotto finito, sacrificati sull'altare della trasparenza rappresentativa.
Attraverso questo processo situato e consapevolmente paradossale si costruisce quello che potremmo definire uno strano anello ontologico, una configurazione dove la fotografia genera letteralmente se stessa a partire dalla contemplazione riflessiva dei propri elementi fondamentali. Non è più la realtà esterna che si imprime sulla superficie fotosensibile, ma la materialità stessa del processo fotografico che diventa oggetto della propria rappresentazione. Come nelle visio(so)phie e nelle foto[so]phie, anche qui oggetto fotografato e fotografia cessano di mantenere la loro tradizionale gerarchia soggetto-oggetto per situarsi su un piano di perfetta equivalenza ontologica nell'opera finale. Ma mentre nei primi due movimenti questa equivalenza nasceva dall'assemblaggio critico di elementi esterni al medium, nelle meta{so}phie emerge dalla pura auto-contemplazione del medium stesso, una sorta di narcisismo metodologico che trasforma il fotografico in specchio della propria materialità costituente. Questo rovesciamento introduce una dimensione temporale inedita nella ricerca. Se le visio(so)phie operavano nella simultaneità dell'assemblaggio e le foto[so]phie nella stratificazione del tetragramma compositivo, le meta{so}phie attivano una temporalità propriamente archeologica: un movimento regressivo che scava negli strati materiali del medium per portare alla luce i sedimenti nascosti del processo fotografico stesso.
Sulle pareti si dispiegano così i tempi intermedi di una metamorfosi circolare di grande fascino teorico: l'oggetto materiale (pigmento, carta, superficie) che si trasforma in fotografia; la fotografia che, nel rappresentare la propria materialità costituente, si riscopre oggetto tra gli oggetti; il documento critico che esplicita riflessivamente il processo di questo passaggio ontologico. Un anello piuttosto inespugnabile che trasforma la tradizionale linearità del processo fotografico –dalla realtà all'immagine– in quella spirale auto-referenziale che caratterizza ormai tutta questa ricerca. Ma l'aspetto più singolare di questa operazione risiede nel fatto che ogni meta{so}phia documenta simultaneamente il processo della propria genesi. Non si limita a essere fotografia della fotografia, ma mostra il proprio divenire tale, rendendo visibile la propria fenomenologia costitutiva. È come se l'opera contenesse al proprio interno la propria critica, la propria genealogia, la propria teoria, realizzando in forma piena quella coincidenza tra prassi artistica e riflessione teorica che costituisce uno degli obiettivi più ambiziosi dell'arte concettuale contemporanea.
Le meta{so}phie si confrontano inevitabilmente con il paradosso classico dell'auto-rappresentazione, quello stesso che affligge il mentitore di Epimenide o gli insiemi di Russell che contengono se stessi. Come può un'immagine fotografica rappresentare il processo della propria creazione senza cadere in una regressione infinita? Come può la fotografia dire qualcosa su se stessa utilizzando esclusivamente i propri mezzi espressivi, senza ricorrere al linguaggio verbale o ad altri codici esterni? La soluzione adottata è in linea con le tutte precedenti riflessioni: invece di tentare di risolvere il paradosso, le meta{so}phie lo abitano produttivamente. Fanno del paradosso stesso il proprio contenuto specifico, trasformando l'aporia logica in dispositivo generativo di senso. Ogni meta{so}phia è simultaneamente il documento di un processo e il processo di tale documentazione, l'archeologia di una genesi e la genesi di tale archeologia. Questo approccio richiama da vicino le riflessioni di Douglas Hofstadter sui strange loops, quegli anelli ricorsivi dove diversi livelli di astrazione si intersecano in modi apparentemente paradossali ma concretamente produttivi. Nelle meta{so}phie, il livello dell'oggetto materiale, quello del processo fotografico e quello della riflessione critica si intrecciano in una coreografia complessa che genera significati emergenti, irriducibili a ciascuno dei livelli considerati isolatamente.
Queste opere rappresentano così il momento di massima intensità teorica dei primi tre movimenti di questa ricerca: non più arte che riflette sulla propria natura attraverso l'incorporazione di elementi esterni, ma arte che è immediatamente questa riflessione, che coincide perfettamente con la propria auto-analisi materiale. È il punto in cui l'archeologia del presente fotografico –formula che attraversa come un filo rosso l'intera ricerca– raggiunge la sua forma più pura e radicale. Ma di che tipo di archeologia si tratta? Non certamente di quella tradizionale, che scava nel passato per recuperare tracce di civiltà sepolte. Le meta{so}phie praticano piuttosto un'archeologia del presente, che scava negli strati materiali del medium contemporaneo per scoprire che ogni immagine porta già in sé, come memoria latente e stratificata, la storia completa delle proprie condizioni di possibilità tecniche, estetiche e concettuali. In questo senso, le meta{so}phie realizzano quella coincidenza di teoria e prassi che costituisce l'orizzonte utopico di molta arte concettuale. Non sono opere su la fotografia accompagnate da un apparato teorico separato, ma opere che sono immediatamente teoria della fotografia, teoria incarnata, teoria che pensa attraverso la materialità invece che attraverso il discorso verbale. Questa coincidenza, lo ribadiamo, si manifesta con particolare evidenza nella struttura triadica delle meta{so}phie: opera materica (gli oggetti fotografati nella loro consistenza fisica), opera fotografica (l'immagine risultante dal processo di documentazione), apparato documentale (il testo che esplicita le relazioni tra i primi due momenti). Ma la particolarità dell'operazione sta nel fatto che questi tre momenti non sono semplicemente giustapposti –come avverrebbe in una normale mostra con catalogo critico– bensì reciprocamente implicati in una rete di rimandi che rende impossibile separarli senza perdere il senso dell'insieme. L'opera materica non è comprensibile senza la sua traduzione fotografica; l'opera fotografica non è intelligibile senza il riferimento alla sua matrice materiale; l'apparato documentale non è un commento esterno ma l'esplicitazione di relazioni già operative a livello visivo. Si crea così una forma di circolarità ermeneutica dove ogni elemento renderebbe conto degli altri e dove il senso emerge dalla totalità delle relazioni piuttosto che dalla somma delle parti.
L'Arte della Fuga di Johann Sebastian Bach rappresenta un caso limite nella storia della musica: un'opera che esiste primariamente come struttura logico-formale prima ancora che come evento sonoro. Bach non specificò mai per quali strumenti fosse destinata, lasciando aperta la possibilità che l'opera potesse essere letta come pura architettura contrappuntistica, un edificio di relazioni matematiche tra voci che si intrecciano, si invertono, si specchiano. Questo aspetto ha affascinato generazioni di musicologi e filosofi. Douglas Hofstadter, che già figura in queste pagine a proposito degli strange loops, dedicò pagine memorabili proprio a quest'opera in Gödel, Escher, Bach, vedendovi l'incarnazione perfetta di quella ricorsività auto-referenziale che caratterizza i sistemi formali complessi. Non è un caso che Bach, nell'ultima fuga incompiuta, inserisca il proprio nome (B-A-C-H in notazione tedesca) come tema: l'opera si piega su se stessa, il creatore diventa materiale della propria creazione.
Le meta{so}phie, nella loro struttura triadica (opera materica, opera fotografica, apparato documentale), condividono con l'Arte della Fuga questa qualità di partiture autonome: configurazioni formali che possono essere contemplate, studiate, lette indipendentemente dalla loro realizzazione materiale. Ma c'è di più. Se l'Arte della Fuga documenta il processo compositivo attraverso la progressiva complessificazione delle tecniche contrappuntistiche (canoni, fughe, inversioni, aumentazioni), le meta{so}phie documentano il processo stesso attraverso cui l'immagine fotografica si costituisce. Sono partiture che contengono le istruzioni per la propria genesi.
Spingiamo l'analogia oltre. Cosa significa affermare che un'opera può essere apprezzata senza essere eseguita? Significa riconoscere che esiste un livello dell'opera che precede e trascende la sua manifestazione sensibile: il livello della pura struttura formale, della possibilità articolata. Per le meta{so}phie, questo livello è quello del protocollo generativo: l'insieme di regole, relazioni e operazioni che definiscono come l'opera si costituisce. È ciò che nel saggio viene definito sistema di produzione in analogia con i sistemi formali di Post. Possiamo allora distinguere tre modi di esistenza dell'opera: l'opera come progetto (partitura/protocollo), ovvero la struttura formale pura, contemplabile intellettualmente; l'opera come processo (esecuzione/realizzazione), cioè il divenire temporale dell'opera; l'opera come prodotto (registrazione/stampa), vale a dire la cristallizzazione materiale. Le meta{so}phie, nella loro singolarità, abitano simultaneamente tutti e tre i livelli, rendendo esplicita questa stratificazione che in altre opere rimane implicita.
L'Arte della Fuga è notoriamente incompiuta: Bach morì prima di completare l'ultima fuga, che si interrompe bruscamente proprio nel momento in cui il tema B-A-C-H viene introdotto. Questa incompiutezza non è stata percepita come difetto, ma come apertura vertiginosa: il silenzio finale diventa parte dell'opera, la mancanza si fa presenza eloquente. Analogamente, le meta{so}phie incorporano strutturalmente una forma di incompletezza produttiva. L'archeologia del medium fotografico che praticano non può mai essere completa: scavando negli strati materiali della fotografia, si scopre sempre un ulteriore livello di condizioni di possibilità. È l'equivalente visivo del teorema di Gödel: ogni sistema sufficientemente complesso contiene proposizioni indecidibili, ogni auto-riflessione apre nuovi abissi.
Questa analogia si sviluppa nelle schede delle meta{so}phie secondo diverse direzioni. Ogni meta{so}phia può essere presentata non solo come immagine da vedere, ma come diagramma da leggere. La scheda esplicita le relazioni formali tra i tre momenti (materiale, fotografico, documentale), permettendo al fruitore di studiare la partitura come pura astrazione dell'opera. In questo senso alcune configurazioni potrebbero essere più potenti nella loro forma progettuale che nella loro realizzazione materiale. L'intera serie delle meta{so}phie può essere vista come una fuga visiva: ogni opera riprende e sviluppa temi delle precedenti (inversioni, aumentazioni, contrappunti), creando una struttura complessiva che trascende i singoli elementi. Come nell'Arte della Fuga, il significato emerge dalla relazione tra le parti più che dalle parti isolate.
L'analogia con Bach non è dunque meramente decorativa: illumina un aspetto teoricamente cruciale delle meta{so}phie. Suggerisce che queste opere appartengono a quella categoria rara di creazioni che esistono primariamente come strutture formali, dove la realizzazione materiale è una delle possibili attualizzazioni di una potenzialità più ampia. Questo apre prospettive interessanti e ancora più radicali: meta{so}phie puramente teoriche, ovvero opere che esistono solo come protocolli, come possibilità articolate, come diagrammi di operazioni mai eseguite. Sarebbe l'equivalente visivo di quelle composizioni musicali che i teorici analizzano senza mai ascoltare, trovando in esse una bellezza puramente formale, una perfezione che l'esecuzione potrebbe solo approssimare.
Le meta{so}phie, pur non rappresentando la conclusione definitiva di questa avventura nell'universo dell'arte concettuale, costituiscono indubbiamente un punto fisso nello sviluppo e nel consolidamento teorico di tutte le intuizioni precedenti. In esse convergono e trovano la loro forma più matura tutti i temi che attraversano la ricerca: la questione dell'assemblaggio come superamento della logica dialettica, la problematica dell'immagine pensosa come zona di indecidibilità produttiva, la strategia della geminazione come risposta ai paradossi dell'arte nell'epoca della riproducibilità digitale. Ma soprattutto, le meta{so}phie dimostrano concretamente la possibilità di un'arte che sia immediatamente teoria di se stessa, che rifletta sulle proprie condizioni senza ricorrere a discorsi esterni, che pensi attraverso la materialità invece che attraverso i concetti astratti. In questo senso, esse anticipano quegli sviluppi futuri della ricerca artistica che potrebbero portare verso forme sempre più sofisticate di auto-riflessività materiale. Si rivelano così non solo come momento culminante della ricerca qui documentata, ma come paradigma di una forma di pensiero peculiarmente contemporanea, quella spirale auto-referenziale che caratterizza sempre più largamente i processi cognitivi dell'epoca digitale. In un mondo dove le immagini sono prodotte principalmente da altre immagini, dove i testi sono generati da corpora di testi preesistenti, dove la realtà stessa sembra costituita da rappresentazioni di rappresentazioni, la capacità di pensare ricorsivamente diventa una competenza fondamentale. L'arte, in questa prospettiva, non si limita a rispecchiare passivamente tali trasformazioni, ma ne anticipa creativamente gli sviluppi, sperimentando forme di auto-riflessività che potrebbero presto diffondersi in altri ambiti dell'esperienza umana.
Queste opere costituiscono così, oltre che il compimento momentaneo di una ricerca artistica specifica, un contributo alla comprensione dei meccanismi attraverso cui la contemporaneità pensa se stessa. In definitiva, il terzo movimento della ricerca dimostra come sia possibile trasformare i paradossi dell'autoreferenzialità in dispositivi produttivi di senso, facendo della ricorsione non un limite logico ma una risorsa espressiva. È questa la lezione più profonda consegnataci da tali opere: che il pensiero contemporaneo, per essere all'altezza della propria epoca, deve imparare ad abitare produttivamente i propri paradossi invece di tentare vanamente di risolverli.