ASSEMBLAGGIO UNITARIO
come coesistenza immediata del senso
La modalità del museo moderno, della critica d'arte accademica, dell'analisi che procede per comparazione e sintesi, si fonda su quella che potremmo definire una forma di violenza ermeneutica: scompone artificialmente ciò che l'artista ha concepito come unità organica, impone una temporalità sequenziale –prima contemplo A, poi B, infine leggo il testo esplicativo– rispetto a ciò che nasceva come simultaneità di presenza. L'immagine che accoglie in un tutt'uno apparato testuale e configurazioni fotografiche attiva invece una modalità di ricezione radicalmente diversa, più affine all'estetica dei new media e alla sensibilità della cultura digitale contemporanea. Qui non sussiste alcuna gerarchia temporale: tutto si offre al nostro sguardo in un'unica superficie percettiva, dove il testo non si pone sopra le immagini come didascalia, ma dialoga con esse nella medesima tessitura visiva. E quando non riesce ad unificare gli elementi eterogenei, lo strato tipografico diventa costitutivamente destinato a questo fallimento, che è condizione stessa della sua operatività estetica. Entriamo allora in questo singolare laboratorio del pensiero, dove le forme non sono mai innocenti e ogni accostamento genera cortocircuiti di senso imprevisti. È essenziale chiarire, fin dal principio, che l'assemblaggio non coincide affatto con il collage. Un collage accumula, giustappone elementi per effetto estetico o narrativo, seguendo ancora una logica rappresentativa. L'assemblaggio –o agencement, come lo definirono con straordinaria precisione Gilles Deleuze e Félix Guattari– si configura invece come autentica macchina: una macchina che funziona, produce, genera realtà inedite. Procediamo dunque nell'analisi di questo concetto punto per punto, esattamente come faremmo smontando un congegno per comprenderne l'intimo meccanismo. Per afferrare pienamente la natura dell'assemblaggio, dobbiamo necessariamente confrontarci con il suo antagonista storico: la mediazione dialettica. La dialettica hegeliana, che ha esercitato un dominio quasi ipnotico sul pensiero occidentale, si presenta come un processo apparentemente rassicurante:
- Tesi: un'affermazione (la nostra immagine A).
- Antitesi: la sua negazione o il suo opposto (l'immagine B che la contraddice).
- Sintesi: una nuova, superiore unità che risolve il conflitto, superando e conservando gli elementi iniziali in una comprensione più elevata.
La sintesi hegeliana si presenta come una pace, una risoluzione definitiva del conflitto. La contraddizione viene metodicamente disinnescata, mediata, riassorbita in un significato unico e totalizzante. In un'opera d'arte di stampo classico, ogni elemento –figure, paesaggio, cromatismi– collabora armoniosamente alla produzione di un messaggio univoco, di una narrazione perfettamente coerente. Ecco l'incarnazione più pura della logica sintetica. L'assemblaggio deleuziano si erge invece come autentico atto di guerriglia contro questa logica pacificatrice. La sua dichiarazione di principio risuona provocatoria: "Non desideriamo la pace della sintesi. Rivendichiamo la tensione feconda della coesistenza". Gli elementi eterogenei rifiutano ostinatamente di fondersi, di risolversi l'uno nell'altro. Permangono irriducibilmente sé stessi, ed è precisamente da questo attrito, da questo scontro perpetuo, che scaturisce l'energia vitale dell'opera. Le due configurazioni che definiscono una visio(so)phia non intrattengono quindi rapporti di tesi e antitesi. Sono piuttosto due stranieri costretti a condividere il medesimo spazio esistenziale, senza possibilità di fuga né di riconciliazione. Il testo non funge da didascalia esplicativa, ma si configura come ulteriore corpo estraneo gettato nell'arena compositiva. Che si tratti del frammento di un articolo di legge, di una formula matematica o di un verso poetico, il testo mantiene la propria autonomia: non si subordina all'immagine, né pretende di dominarla. Analogamente, una linea tracciata a mano libera, una macchia di colore puro, una freccia geometrica non sono mere decorazioni accessorie. Si rivelano invece autentici vettori, linee di forza che istituiscono collegamenti apparentemente assurdi, illogici, eppure dotati di straordinaria potenza visiva, capaci di caricare l'immagine risultante di valenze emotive (inquietudine, euforia, straniamento...) che precedentemente non possedeva. Nell'assemblaggio, nessun elemento può essere decifrato in maniera isolata. Il suo significato emerge esclusivamente dalla rete di rapporti che intrattiene con tutti gli altri componenti. È un fenomeno di contagio reciproco, una cattura vicendevole dove nessun elemento pretende di risolvere definitivamente gli altri. Non c'è nulla di quella sintesi pacificatrice tanto cara alla tradizione hegeliana. Al contrario, i diversi enti si sono catturati reciprocamente, si sono territorializzati gli uni sugli altri, generando una coesistenza conflittuale ma produttiva. L'opera si manifesta come organismo unitario non per virtù di qualche armonia prestabilita, ma perché costituisce un'unica macchina vibrante, dove ogni componente –pur conservando gelosamente la propria identità straniera– funziona esclusivamente in relazione dinamica con tutti gli altri. Un'opera-assemblaggio così concepita trascende dunque la condizione di oggetto offerto alla contemplazione passiva per rivelare il proprio messaggio nascosto. Si configura piuttosto come dispositivo da attivare, macchina da mettere in moto. Lo spettatore abbandona il ruolo tradizionale di interprete per assumere quello più impegnativo di operatore. Il suo sguardo, il suo pensiero, la sua esperienza personale divengono l'ultimo, decisivo ingranaggio della macchina. L'opera non elargisce risposte preconfezionate, ma ci costringe a formulare domande inedite, a tessere connessioni impreviste, a pensare audacemente al di fuori delle categorie consuete.
Torniamo ora al dittico separato per comprenderne appieno i limiti strutturali rispetto agli assemblaggi visivi. In questa modalità espositiva, l'artista rinuncia parzialmente al controllo sui rapporti tra gli elementi: delega al curatore, al critico, al fruitore il compito di ricostruire le connessioni semantiche. È precisamente la logica dell'opera aperta teorizzata da Umberto Eco, dove l'autore si limita a fornire materiali grezzi che l'interpretazione è chiamata successivamente ad attivare e organizzare. Al contrario, nell'assemblaggio unitario delle visio(so)phie, come abbiamo visto, l'artista mantiene un controllo compositivo integrale sui rapporti interni all'opera. Il dittico separato implica necessariamente una temporalità diacronica: il tempo paziente dell'analisi, della comparazione meditata, della riflessione che si dipana progressivamente. È il tempo caratteristico della coscienza che elabora metodicamente, confronta sistematicamente, sintetizza dialetticamente. L'assemblaggio unitario genera invece una temporalità sincronica: il tempo fulmineo dell'impatto immediato, della percezione globale che coglie simultaneamente tutti gli elementi in una sola, densa esperienza visiva. Questa differenza temporale genera una sfida teorica inedita per la critica contemporanea: come interpretare un'opera che ingloba già la propria dimensione interpretativa? Come produrre un discorso critico autonomo su una configurazione che ha preventivamente incorporato la forma stessa del discorso critico? Qui emerge forse la dimensione più radicalmente innovativa dell'arte contemporanea: non si tratta più di generare oggetti da sottoporre successivamente all'interpretazione, ma di creare configurazioni che inglobano e problematizzano la stessa possibilità dell'interpretazione tradizionale. L'arte si fa così intrinsecamente meta-critica, trasformandosi in riflessione consapevole sui propri dispositivi di ricezione e comprensione. L'assemblaggio unitario suggerisce l'urgenza di sviluppare strumenti critici inediti, che non procedano più attraverso la separazione analitica tradizionale, ma per immersione diretta nella configurazione complessiva dell'opera. Una critica che diventi essa stessa assemblaggio, che proceda per contiguità e risonanza semantica piuttosto che per distanza interpretativa e scomposizione analitica tradizionale. Questo non comporta certamente una rinuncia al rigore critico, ma ne esige un radicale ripensamento metodologico che si dimostri all'altezza della complessità dell'arte contemporanea, capace di pensare la simultaneità senza ridurla forzatamente alla sequenzialità logica, l'assemblaggio senza frammentarlo negli elementi costitutivi, la tensione produttiva senza risolverla in sintesi pacificatrici. Si tratta di inventare strumenti critici che operino per immersione nella tessitura dell'opera piuttosto che per estrazione di significati predeterminati. Una critica che sappia diventare costellazione –per utilizzare una metafora benjaminiana– dove i concetti si organizzano attorno all'opera non come sistema gerarchico di spiegazioni, ma come campo di forze che ne attivano le potenzialità latenti senza esaurirne il mistero operativo. La scelta tra dittico separato e assemblaggio unitario non si rivela quindi neutrale dal punto di vista metodologico: implica concezioni profondamente divergenti dell'arte, del soggetto estetico, della temporalità, della critica stessa. È forse proprio in questa alternativa radicale che si gioca una delle sfide più suggestive per l'estetica contemporanea e per la capacità dell'arte di pensare se stessa all'altezza della propria epoca.
Abbiamo già osservato come queste configurazioni esigano di essere abitate piuttosto che semplicemente guardate o lette. Il gesto del toccare, spostare e ricomporre questi assemblaggi attiva quello che potremmo definire un autentico pensiero aptico: una modalità conoscitiva che transita attraverso la manipolazione fisica, trasformando radicalmente l'interpretazione tradizionale in processo di co-creazione consapevole. Quando l'osservatore-fruitore interviene su questi assemblaggi, non si limita a interagire superficialmente con l'opera: sta piuttosto rievocando e riattualizzando il processo creativo originario nella sua integralità. Ogni riposizionamento degli elementi costituisce un gesto compositivo che rispecchia, in scala ridotta ma fedele, le decisioni strutturanti dell'artista. La dimensione tattile introduce così un elemento fondamentale spesso trascurato dalla critica contemporanea: la corporeità costitutiva del pensiero. Il senso non scaturisce più esclusivamente dalla decodifica visiva o testuale, ma dall'esperienza cinestesica integrale del ricomporre, scomporre, accostare elementi eterogenei. È un ritorno consapevole a quel pensiero manuale che precede storicamente la separazione moderna tra attività mentale e corporea. Ogni gesto del fruitore si configura come una micro-genealogia dell'opera, una ricapitolazione abbreviata ma intensiva del percorso creativo originario. La proposta teoricamente più audace di questa ricerca consiste nell'offrire l'opera secondo una duplice modalità esistenziale, introducendo dinamiche estetiche di straordinaria complessità. Nell'introduzione abbiamo già accennato al fatto che la versione sigillata trascende la condizione di semplice cristallizzazione dell'assemblaggio per divenire matrice sacra, archetipo intoccabile che garantisce la persistenza dell'intuizione originaria attraverso il tempo. La versione libera funziona invece come campo aperto di sperimentazione, dove l'opera può continuare a evolversi organicamente attraverso gli interventi stratificati del pubblico. La versione sigillata si trasforma, invece, in testimone silenzioso di tutte le metamorfosi che la sua controparte libera subisce nel corso della propria esistenza sociale. È come possedere simultaneamente il DNA originario dell'opera e tutti i suoi possibili sviluppi evolutivi. Dal punto di vista dell'esperienza estetica, il fruitore si ritrova in una condizione esistenziale inedita: può contemplare e agire simultaneamente, ma su due oggetti distinti che incarnano la medesima opera secondo modalità ontologiche differenti. Questa scissione attiva una forma di pensiero stereoscopico, ovvero la capacità di tenere insieme permanenza e trasformazione, origine e divenire, purezza concettuale e contaminazione processuale. La versione libera, consapevole di possedere una gemella sigillata, acquisisce paradossalmente una libertà operativa maggiore: ogni intervento potrà essere compiuto nella tranquilla consapevolezza che l'originale permane intatto altrove. Questo elimina l'ansia paralizzante della responsabilità irreversibile, permettendo sperimentazioni più audaci e creative. Il fruitore può osare di più, sapendo che il proprio gesto non cancella ma aggiunge stratificazioni di senso. L'autore, offrendo questa duplice possibilità, compie simultaneamente un gesto di generosità artistica e di raffinata astuzia estetica. Rinuncia al controllo totalitario sull'opera ma mantiene una traccia indelebile della propria intenzione generativa. È una forma inedita di paternità aperta che riconosce il diritto dell'opera a una vita autonoma senza rinunciare alla propria funzione matriciale.
La coesistenza delle due versioni nello spazio espositivo attiverebbe una tensione magnetica continua e produttiva. I visitatori si troverebbero a oscillare costantemente tra contemplazione e azione, tra rispetto e trasgressione creativa, tra fedeltà all'origine e libertà interpretativa. Ogni sguardo rivolto alla versione sigillata risulterebbe informato dalla consapevolezza di ciò che si sta compiendo –o si potrebbe compiere– sulla versione libera, e viceversa. Questa strategia di geminazione –termine che cattura con precisione l'essenza del processo– supera la logica della semplice duplicazione o riproduzione per generare due entità che condividono la medesima origine genetica ma sviluppano destini esistenziali divergenti. Come gemelli, entrambe le versioni rimangono necessarie alla completezza dell'opera, risolvendo il paradosso dell'arte contemporanea che aspira a essere simultaneamente monumento e processo, archivio e laboratorio vivente. La geminazione opera inoltre una redistribuzione intelligente dell'aura benjaminiana: mentre la versione sigillata concentra l'aura dell'intenzione autoriale originaria, la versione libera genera nuove forme auratiche attraverso l'accumulo stratificato degli interventi nel tempo. Questo processo introduce una temporalità evolutiva inedita: la versione sigillata conserva il tempo originario come memoria immobile, mentre la versione libera accumula storia, trasformandosi in autentico palinsesto temporale delle trasformazioni. In termini di economia simbolica, questa strategia rappresenta forse l'evoluzione più matura del concetto di opera aperta: non più semplice invito generico alla partecipazione, ma autentica architettura della partecipazione che organizza metodicamente spazi differenziati per modalità diverse di incontro con l'arte. Anche la conservazione di questi organismi estetici duplici dovrebbe seguire necessariamente una logica altrettanto duplice: da un lato, trattare la versione sigillata come supporto permanente, dall'altro come archivio critico primario con la matrice generativa di tutti i possibili sviluppi futuri dell'opera. Questo implica non soltanto preservazione fisica tradizionale, ma anche documentazione processuale sistematica: ogni versione libera che si genera dovrebbe essere fotograficamente documentata e genealogicamente collegata alla matrice sigillata, creando un albero evolutivo delle trasformazioni. L'archiviazione ideale dovrebbe prevedere condizioni museali standard per la conservazione materiale, ma anche un sistema di metadatazione sofisticato che registri tutte le attivazioni della versione libera nel tempo. La versione sigillata diverrebbe così non soltanto opera autonoma, ma centro nevralgico di documentazione della propria vita metamorfica sociale. Dal punto di vista della collocazione espositiva, la versione sigillata richiede uno statuto necessariamente ambivalente: deve risultare accessibile per permettere il confronto dialettico con la versione libera, ma simultaneamente protetta in quanto matrice irriproducibile. La soluzione più elegante consisterebbe forse in una teca trasparente che consenta la visione integrale impedendo qualsiasi contatto fisico, sottolineando simbolicamente il suo ruolo di originale intoccabile, custode dell'intenzione generativa che permette ogni successiva trasformazione.
Compiuto questo lungo attraversamento teorico delle geografie dell'assemblaggio unitario, è tempo che le configurazioni stesse si dispieghino direttamente al vostro sguardo. Ogni opera che segue sarà accompagnata da brevi annotazioni critiche capaci di tracciarne le linee di forza e i nodi semantici. Ancora una volta non si tratta di didascalie ma di cartografie, non spiegazioni ma inviti ad abitare quelle zone di indecidibilità dove il senso si genera dal puro attrito degli elementi eterogenei. Lasciate che queste macchine visuali attivino ora i loro dispositivi di pensiero e che lo sguardo diventi esso stesso gesto aptico capace di abitare produttivamente le zone di incompletezza che si aprono sulla superficie dell'opera.