Occhio di farfalla, corpo di pietra

Dettaglio Opera

Visiosophia 02

Questa seconda visio(so)phia introduce ulteriori livelli di complessità che permettono di delineare una vera e propria grammatica di ibridazione e metamorfosi. Se il primo assemblaggio metteva in scena il dialogo tra costruzione identitaria e memoria statuaria, il secondo opera una trasformazione più radicale dove la farfalla sull'occhio non è decorazione casuale ma riattivazione di un antico simbolismo dell'anima (psyche). Lo sguardo -unico elemento ancora "umano"- ci fissa attraverso questa metamorfosi, mantenendo un centro soggettivo proprio mentre tutto il resto si ibrida. La figura di destra porta questa logica trasformativa all'estremo: il corpo umano diventa supporto per una geometria pura, una forma architettonica che nega e al contempo esalta la corporeità. Non è più il corpo che indossa un vestito, ma il corpo stesso che si fa materia, che si trasforma in scultura vivente. Le venature del marmo blu attraversato da oro non sono applicate ma sembrano costituire l'essenza stessa di questa forma corporea.

Le visio(so)phie rivelano qui la loro natura intrinsecamente metamorfica in cui ogni elemento può trasformarsi: il corpo in architettura, la pelle in marmo, l'occhio in superficie ospitante per la farfalla. Non siamo più nel regime della semplice rappresentazione né della costruzione simbolica, ma della generazione di realtà ibride che non potrebbero esistere al di fuori di questa dimensione di sintesi visiva. Questa metamorfosi non è arbitraria ma segue una logica interna: ogni trasformazione rivela qualcosa di latente nell'elemento trasformato. Anche l'opposizione tra il bianco e nero della prima immagine e i colori più saturi della seconda costituisce una strategia concettuale precisa. Il monocromo crea un effetto di sospensione temporale, di sottrazione dal mondo dei colori naturali mentre il colore della seconda immagine è invece iper-reale: troppo saturo e troppo perfetto, sintesi digitale dell'immagine che non imita la realtà ma crea una visione parallela con le sue proprie leggi ottiche. Entrambe le figure mettono in crisi l'unità del soggetto rappresentato, ma attraverso strategie diverse: la prima mantiene un centro soggettivo (lo sguardo) ma lo contamina con elementi eterogenei che ne ibridano l'identità; la seconda dissolve la soggettività nel puro evento geometrico-cromatico, trasformando il corpo in evento architettonico.

Questo processo rivela una delle implicazioni più radicali delle visio(so)phie: la crisi definitiva del ritratto come genere. Non si tratta più di rappresentare qualcuno, ma di generare configurazioni identitarie temporanee, assemblages soggettivi che esistono solo nell'atto stesso della loro composizione. Il testo che attraversa l'immagine di destra non descrive ma performa questa metamorfosi, frantumando la sintassi così come l'immagine frantuma l'unità del corpo. I "dialoghi impossibili" tra le immagini operano in una dimensione temporale completamente nuova. Non è il tempo della storia dell'arte (antico/moderno) né quello della biografia individuale (prima/dopo), ma un tempo anacronistico dove tutti gli elementi coesistono simultaneamente. La farfalla dialoga con i corni gotici, il marmo classicheggiante con la geometria modernista: ogni elemento mantiene le sue connotazioni storiche ma le mette in gioco in configurazioni che non rispettano alcuna cronologia lineare. Le visio(so)phie emergono così come arte dell'assemblaggio impossibile: combinazioni di elementi che non potrebbero mai incontrarsi nel mondo fisico ma che, una volta assemblati, generano significati inediti. È l'estetica del what if: cosa succederebbe se un occhio diventasse farfalla, se un corpo diventasse architettura, se la carne diventasse marmo? Questo "se" non è ipotetico ma performativo: realizzando effettivamente questi incontri impossibili, li si rendono visibili e quindi pensabili.

Di fronte a questi assemblaggi, la critica tradizionale mostra i suoi limiti. Non si tratta più di "interpretare" simboli (cosa significa la farfalla?) ma di analizzare processi (come funziona la trasformazione occhio-farfalla?). Non ermeneutica ma genealogia delle trasformazioni. Utilizzando il linguaggio di Deleuze e Guattari, questi dittici funzionano come macchine desideranti: non rappresentano identità ma le producono temporaneamente, non mostrano soggetti ma li generano attraverso l'assemblaggio. Ogni assemblaggio è una macchina per produrre soggettività, per sperimentare configurazioni identitarie inedite. Lo stesso testo diventa parte di questa macchina: produce il desiderio di senso mantenendolo strutturalmente aperto, costringendo l'osservatore a cercare (creare) significato nella pura materialità visiva e nella tensione tra gli elementi assemblati. In ultima analisi si configurano come pratica contemporanea del possibile: non documentano ciò che è stato né semplicemente immaginano ciò che potrebbe essere, ma attualizzano simultaneamente infinite possibilità trasformative: un cristallo di tempo dove passato e futuro, reale e virtuale, umano e non-umano coesistono in una dimensione di pura intensità visiva. La grammatica che emerge non è quindi solo un insieme di tecniche compositive, ma un vero e proprio orizzonte ermeneutico per navigare la complessità del reale contemporaneo, caratterizzato dall'ibridazione costante tra naturale e artificiale, umano e tecnologico, organico e geometrico, carne e pietra.