Geografia dell'Erosione
Dettaglio Opera
Sul nero assoluto emerge una figura di donna che non è più solo volto: è territorio conquistato, paesaggio ibrido dove la carne cede il passo alla pietra, dove la pelle diventa corteccia, terra, radici e rovina. La metà destra del viso si dissolve in una stratificazione geologica, come se millenni di erosione avessero scavato nella superficie dell'identità rivelando gli strati profondi del tempo. Ma ciò che più inquieta e affascina sono quelle vene-radici che scendono dal volto eroso come lacrime vegetali, come un sistema circolatorio esposto all'aria. È il rizoma deleuziano che diventa carne: una rete di connessioni che non ha centro né gerarchia, che cresce in tutte le direzioni simultaneamente, ramificandosi senza seguire la logica arborescente della tradizione. Il volto guarda dritto verso di noi con un occhio intatto e luminoso. La scritta enigmatica "69 gn.01 LMV" fluttua come un codice di catalogazione museale: questo volto è diventato reperto, archeologia vivente, testimone di una trasformazione che non distingue più tra organico e inorganico.
Dall'altra parte della divisione verticale, su un fondale grigio e nebbioso, lo scheletro di dinosauro si erge in tutta la sua maestosa ferocia. È il T-Rex dell'immaginario collettivo, ma anche qualcosa di più: è la morte che continua a esistere, l'assenza che si fa presenza ossea, testimonianza tangibile. Le fauci spalancate sembrano ancora capaci di mordere, come se sessantacinque milioni di anni non fossero sufficienti a placare l'istinto predatorio. Lo scheletro è più vivo del vivente: nella sua nudità anatomica rivela la verità strutturale dell'esistenza, l'architettura interna che sorregge ogni movimento, ogni respiro, ogni desiderio. Il grande cerchio rosso sangue con il numero "1 2" diviso dalla linea verticale bianca è insieme orologio e bersaglio, meridiana e mirino. Potrebbe indicare un'ora, un livello di allerta, un countdown o un capitolo. È il tempo che misura, che separa, che conta, quel tempo lineare contro cui si ribella la logica rizomatica del volto vegetale.
Anche la cesura verticale bianca che taglia l'immagine in due non è solo un confine: è una cerniera, una crepa da cui filtra la luce di altri mondi possibili. Divide il nero organico dal grigio minerale, la carne pietrificata dall'osso fossilizzato, il presente-che-si-fa-passato dal passato-che-persiste-nel-presente. Eppure, guardando più attentamente, si intuisce che le due metà si parlano. Il volto guarda verso il dinosauro, e il dinosauro sembra protendersi verso il volto. Sono forse due stati della stessa metamorfosi? Due punti lungo la stessa linea evolutiva vista in direzioni opposte? La donna che si fa pietra e il rettile che dalla pietra emerge?
Quest'opera è un confronto con l'enigma della persistenza: cosa rimane di noi quando il tempo fa il suo lavoro di erosione? Il volto ci mostra che l'identità non è una superficie liscia ma una stratificazione complessa, dove ogni livello racconta una storia diversa. Le radici che emergono suggeriscono che non siamo mai completamente soli o autonomi: siamo nodi in una rete più vasta, punti di connessione in un rizoma che ci attraversa e ci supera. Il dinosauro, dal canto suo, ci ricorda che l'assenza può essere più eloquente della presenza. Ciò che resta -l'ossatura, la struttura, la forma essenziale- a volte dice più di quanto potesse dire la carne viva. Siamo tutti futuri fossili, future stratificazioni, futuri reperti codificati con numeri e sigle enigmatiche.
C'è una domanda che quest'opera sussurra più che gridare: quando il volto diventa paesaggio e il fossile torna a vivere attraverso lo sguardo, chi sta davvero guardando chi? Siamo noi che osserviamo questi due testimoni del tempo, o sono loro -il volto stratificato e lo scheletro eterno- che ci osservano e ci vedono già per quello che saremo: radici che cercano terra e ossa che aspettano di essere scoperte?